Il Tribunale di Varese, con l’ordinanza n. 1181/2022, ha dato ragione a Facebook in una causa promossa da una utente contro il Social dove si è stabilito, nel caso concreto, che i social network possono sospendere gli account degli utenti no vax, rimuovendo i contenuti che trasmettono disinformazione sanitaria .
Il caso è questo:
Una donna ha condiviso sul proprio profilo Facebook il video di una parlamentare che definiva i vaccini contro il Covid-19 come “iniezioni letali” e aveva incoraggiato altri utenti a rifiutare la somministrazione. La donna,pur non commentando il discorso della parlamentare, lo ha condiviso anche nel gruppo che amministrava.
Il social ha inizialmente rimosso il post e successivamente sospeso l’account della donna per 30 giorni, bloccando la sua partecipazione ai gruppi. Per Facebook i contenuti postati violavano le condizioni contrattuali (accettate dall’utente al momento della registrazione), che, in particolare, vietano la pubblicazione di contenuti dannosi e informazioni false sul Covid-19, perché pericolosi per la salute pubblica.
La donna si è rivolta al Tribunale affermando che le condizioni di utilizzo del social network costituiscono norme unilaterali dal contenuto vessatorio e in contrasto con la libertà di espressione sancita dall’articolo 21 della Costituzione.
L’ordinanza n. 1181/2022 è interessante perché si occupa della questione legata al controllo delle piattaforme sui contenuti pubblicati dagli utenti. Il provvedimento comincia l’analisi dalla valutazione della vessatorietà delle clausole, ed in particolare, secondo l’articolo 33 del Codice del consumo (decreto legislativo 206/2005), sono vessatorie le clausole che determinano un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; la valutazione deve essere fatta caso per caso dal giudice, tenendo conto del servizio offerto e della natura della violazione.
In questo caso, però, il Tribunale si spinge fino a sostenere che i diritti degli utenti trovano precisi limiti a fronte di situazioni di emergenza e di rischio.
Per il giudice, le condizioni contrattuali possono considerarsi parte della regolamentazione contrattuale ordinaria. Inoltre, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero anche per gli utenti dei social network non è assoluto ma incontra dei limiti, dettati nel caso esaminato dal diritto alla salute degli altri iscritti.
In precedenza i tribunali si sono già occupati della legittimità delle decisioni dei social network, valutandone di volta in volta la proporzionalità e assumendo, spesso, decisioni favorevoli agli utenti. Così, la Corte d’appello dell’Aquila ha condannato Facebook a risarcire con 15 mila euro di danni un utente ingiustamente bannato per aver pubblicato fotografie e didascalie con la caricatura di Mussolini (sentenza n.1659 del 9 novembre 2021).
In un’altra pronuncia del 2018, il Tribunale di Pordenone ha condannato il social network a riattivare immediatamente il profilo di un utente, che era stato sospeso per aver pubblicato un estratto di una partita di tennis, poi immediatamente cancellato, protetto da copyright. In questo caso il giudice aveva disposto anche il pagamento di 150 euro di indennizzo per ogni giorno di ritardo nella riattivazione dell’account ingiustamente sospeso.
In sintesi gli standard del social network, sottoscritti e accettati al momento dell’iscrizione allo stesso, hanno lo scopo di garantire i valori della sicurezza, della privacy e della dignità e dovrebbero quindi assicurare il rispetto della legge e dei diritti aventi rilevanza costituzionale, come per esempio la dignità della persona, la riservatezza, la sicurezza e, come nel caso ora deciso dal Tribunale di Varese, la salute collettiva. Se l’utente non rispetta questi standard, le sospensioni decise dai social network possono essere ritenute legittime.