Nessun reato su Messanger se l’accusata non sapeva che a leggere il messaggio erano in tanti

L’invio di messaggi diffamatori tramite Messenger non costituisce diffamazione per mancanza di dolo: la decisione della Cassazione.

La Suprema Corte di Cassazione, Quinta Sezione Penale, ha depositato il 27 settembre 2024 la sentenza n. 36217, in cui ha stabilito che l’invio di messaggi diffamatori attraverso la piattaforma Messenger non integra il reato di diffamazione per assenza di dolo. La sentenza esamina una questione centrale: l’uso di una piattaforma di messaggistica privata come Messenger può configurare l’ipotesi di diffamazione aggravata?

La vicenda processuale
Il caso sottoposto alla Cassazione riguardava una condanna emessa dalla Corte d’Appello dell’Aquila per diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3 del codice penale. L’imputata era stata ritenuta responsabile di diffamazione per aver trasmesso una lettera dal contenuto offensivo tramite Facebook, che avrebbe leso l’onore e la reputazione di un professionista forense. Il punto controverso era il mezzo utilizzato: Messenger, uno strumento di comunicazione privata.

La difesa dell’imputata ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo l’assenza di dolo. La tesi difensiva si basava sul fatto che il messaggio diffamatorio fosse stato inviato solo alla persona offesa tramite Messenger e non reso pubblico. L’imputata, dunque, non era consapevole che i messaggi potevano essere letti da altre persone, appartenenti a un’associazione di cui la vittima era presidente, il che escludeva la volontà di comunicare a terzi, requisito necessario per configurare il reato di diffamazione.

La decisione della Cassazione
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, sottolineando che il reato di diffamazione richiede la presenza di un dolo specifico, ossia la volontà di comunicare informazioni lesive a più persone. Sebbene fosse stato accertato che il contenuto diffamatorio fosse stato letto da terzi, il punto centrale rimaneva la consapevolezza dell’imputata circa la diffusione a più persone.

Per la Cassazione, il dolo di diffamazione non implica necessariamente un intento esplicito di ledere la reputazione altruistica, ma richiede la volontà che le espressioni offensive siano percepite da almeno due persone. L’elemento soggettivo si caratterizza, quindi, dalla consapevolezza che il contenuto diffamatorio venga diffuso oltre la persona destinataria.

Nel caso in esame, la Corte ha rilevato che l’imputata non era consapevole del fatto che altre persone accedevano ai messaggi scambiati tramite Messenger. Secondo la giurisprudenza della Corte, il dolo eventuale – ossia l’accettazione del rischio che l’evento lesivo si verifica – si configura quando l’agente, pur riconoscendo la possibilità che l’evento si realizzi, decide di agire comunque. Tuttavia, tale elemento non è stato ritenuto presente nel caso specifico.

Conseguenze della decisione
La decisione della Cassazione ha portato all’annullamento senza rinvio della condanna, poiché il reato risultava prescritto. Tuttavia, la sentenza fornisce chiarimenti significativi sull’interpretazione del dolo nel contesto della diffamazione comunicata tramite mezzi di comunicazione privati. In particolare, afferma che l‘uso di piattaforme di messaggistica come Messenger non equivale di per sé a un’azione diffamatoria, a meno che non vi sia una chiara volontà di rendere pubbliche le dichiarazioni offensive.

Questa pronuncia contribuisce a delineare i confini tra comunicazione privata e pubblica nei reati di diffamazione, ponendo l’accento sulla necessità di valutare attentamente la consapevolezza e la volontà dell’imputato nella diffusione delle affermazioni lesive.






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