In queste ore è diventata virale la tristissima storia della signora romana che ha scoperto che il corpicino del feto, da lei abortito al sesto mese per ragioni terapeutiche, è stato seppellito al cimitero di Prima Porta, al Flaminio, con il nome della mamma sulla croce, senza il suo consenso.
Sulla questione il Garante della Privacy ha avviato un’istruttoria, ma intanto, mentre altre donne stanno scoprendo di essere protagoniste, loro malgrado, della stessa sorte, i soggetti coinvolti nella vicenda si rimpallano la responsabilità.
AMA, che gestisce i servizi cimiteriali, in una nota, spiega che la sepoltura del feto è avvenuta su input dell’Ospedale San Camillo, dove è avvenuto l’aborto, ed è stato autorizzato dall’Asl competente.
L’Ospedale, a sua volta, sposta l’attenzione sulla violazione della privacy, di cui sarebbe l’unica responsabile proprio l’azienda che gestisce il servizio cimiteriale (“la norma prevede che i feti siano identificati con il nome della madre solo ai fini della redazione dei permessi di trasporto e sepoltura, il problema di violazione della privacy è avvenuto all’interno del cimitero Flaminio”, sostiene il direttore generale del San Camillo, Fabrizio d’Alba).
In estrema sintesi il Regolamento di Polizia mortuaria (DPR 285/90) prevede che dalla 20esima settimana di gestazione la sepoltura possa avvenire su richiesta dei familiari o su disposizione della Asl, in quel caso in fosse singole, con sopra una “croce in legno e una targa su cui è riportato comunemente il nome della madre o il numero di registrazione dell’arrivo al cimitero, se richiesto espressamente dai familiari“.
“Come è possibile che tutto ciò sia avvenuto a quasi un quarto di secolo dal debutto della privacy italiana?” (1996), si chiede in un interessante intervento di ieri, pubblicato da Federprivacy, L’Avv. Ciccia Messina.
Già perché, se è pur vero che dietro questa vicenda c’è un assente su tutti, prima ancora della competenza giuridica degli interessati, ossia il buon senso di ognuno dei funzionari pubblici ed operatori che avrebbero potuto intervenire per fermare il ripetuto compiersi di tale macroscopica violazione del diritto fondamentale alla riservatezza, orientarsi nel disordinato avvicendarsi della legge italiana è un’impresa per pochi eletti.
I giuristi della privacy sanno bene che qui si dibatte tecnicamente della “base giuridica” del trattamento delle informazioni e non del (superato e residuale) conferimento del consenso, ma gli stessi esperti devono prendere atto che il vero problema della materia della riservatezza, forse come poche altre tra i diritti fondamentali dell’individuo, sconta il limite del non avere (ancora) “fatto breccia” nella sensibilità collettiva.
Ecco perché questa triste vicenda, oggi agli onori della cronaca, non la dobbiamo dimenticare noi giuristi e sostenitori del diritto, prima di tutto.
Perché se un cittadino può sorridere quando gli si fa notare, ad esempio, che ha subito la violazione di un proprio diritto fondamentale quando non ha ricevuto nessuna informazione dall’ambulatorio medico a cui si è rivolto per una visita, sul come questo tratta i suoi dati personali, sorridiamo certamente di meno e (forse) ci allarmiamo di più, al ricordo di quelle donne, i cui nomi e cognomi sono stampati a loro insaputa, a chiare lettere ed a imperitura memoria di tutti, sulla croce posta sulle spoglie del loro figlio mai nato.
Parliamo dello stesso diritto.